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Lo stile chinoiserie ebbe una grande diffusione a partire dalla fine del Seicento, ma ebbe il momento di maggior fortuna durante il secolo successivo.
Inizialmente nacque come decorazione parietale, per la quale spesso venivano direttamente importate carte dipinte dall’oriente per essere poi inserite nelle coperture murali. Eccellenti esempi sono il Grande Salone della Reggia di Stupinigi e il Castello Reale di Racconigi.
Qui in particolare è apprezzabile un’infilata di stanze tappezzate da carte di altissima qualità e arredate con vasi e altri arredi sempre in stile chinoiserie.
Certamente il fascino esotico e il richiamo a una cultura lontana come quella cinese erano molto ricercati, soprattutto per gli ambienti di rappresentanza, destinati ad accogliere gli ospiti.
Il richiamo di tradizioni figurative lontane aveva lo scopo di stupire i visitatori, ma al contempo di dimostrare l’alta levatura sociale dei proprietari. Soprattutto nel caso in cui si trattava di originali direttamente importati dalla Cina, infatti, i nobili esponevano un’ulteriore e tangibile prova della loro ricchezza e della capacità di procurarsi articoli ricercati e preziosi. Anche da un punto di vista estetico, le decorazioni spesso dorate e caratterizzate da un forte dinamismo, rispecchiavano pienamente la moda dell’epoca.
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Johannes Vermeer, Concerto a tre, 1664, Olio su tela 72.5 x 64.3 | Courtesy © Isabella Stewart Gardner Museum | L'opera è stata rubata nel 1990 e non è stata ancora ritrovata
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Descrivere l’arte di Tintoretto “sarebbe un volere svuotare con picciol’urna il Mare”, scrive il biografo seicentesco Marco Boschini. Eccessivo, audace, ambizioso e visionario, con le sue invenzioni il maestro veneziano ha rivoluzionato la pittura del Rinascimento e narrato storie su storie, personaggi su personaggi in “moltitudini che nessuno riesce a contare - senza mai fermarsi, senza mai ripetersi - nuvole e vortici e fuoco e infinità di terra e mare”, lasciando stupefatti anche visitatori esperti come il vittoriano John Ruskin.
Ma come poté Jacopo Robusti, figlio di un tintore di stoffe, diventare Tintoretto, “il più terribile cervello che mai abbia avuto la pittura” secondo il contemporaneo Giorgio Vasari?
La strada non fu certo agevole. A metterla a fuoco al cinema dal 25 al 27 Febbraio sarà Tintoretto. Un ribelle a Venezia, l’ultimo film evento di Sky Arte distribuito da Nexo Digital, ideato e scritto da Melania Mazzucco e narrato da Stefano Accorsi con la partecipazione straordinaria di Peter Greenaway.
Mentre nel mondo si festeggiano i 500 anni dalla nascita dell’artista, proviamo a seguirlo dalla bottega del padre Giambattista, dove da bambino decorava i muri con i colori per la seta, ai fasti del Palazzo del Doge, emblema della sua Venezia.
Non abbiamo fonti dirette sulla vita di Tintoretto: le notizie più fresche ci arrivano da Carlo Ridolfi, che ne compilò la biografia a partire dai racconti del figlio Domenico. Sappiamo che, vista la propensione del ragazzo per il disegno, il padre lo mandò a bottega dal grande Tiziano. E già a 12 anni Jacopo fece scintille: vuoi per il carattere ribelle, vuoi per il timore di coltivare un pericoloso rivale, il maestro lo fece cacciare dopo solo pochi giorni di apprendistato.
E qui la vicenda si avvolge nel mistero: non si sa in quale bottega ebbe modo di crescere il talento di Tintoretto, che nove anni dopo ritroveremo “maestro nel Campo di San Cassian”, il che vuol dire proprietario di uno studio tutto suo. Su una parete del laboratorio ha scritto “Il disegno di Michel Angelo e ‘l colorito di Tiziano”, una frase che da sola spiega come nella sua pittura pervengano a una sintesi originale due tradizioni: quella veneta, basata su sapienti alchimie di luce e colore, e quella tosco-romana costruita intorno al disegno, alla prospettiva e ai volumi.
Ma ancora più chiara è l’ambizione che divora il giovane artista: per accaparrarsi le commissioni più prestigiose Tintoretto non si farà scrupolo di ricorrere alla concorrenza sleale, al dumping, perfino alla minaccia fisica e alla contraffazione, dipingendo a basso prezzo “alla maniera” di colleghi sulla cresta dell’onda.
Con implacabile energia, temerario talento e un po’ di fortuna riesce a farsi largo nella competitiva Venezia dominata da Tiziano: a 23 anni ottiene di ornare con i quadri delle Metamorfosi di Ovidio la residenza di Vettor Pisani presso San Paterniàn e alcuni anni più tardi registra i primi grandi successi con le imponenti tele della Scuola Grande di San Marco - prima tra tutte il Miracolo dello schiavo - subito ammirate da Pietro Aretino.
Per molti è un pittore stravagante, autore di “capricciose invenzioni e strani ghiribizzi senza disegno” (Vasari). Per tutti è “il Furioso” per il carattere impetuoso e il tratto drammatico che ne contraddistingue i dipinti. Ma a farsi strada attraverso il suo pennello è una lingua nuova, che anticipa il gran teatro del Barocco: azzardi compositivi e prospettici (la famosa “scorciatura”), inebrianti effetti di luce, un uso sofisticato del colore steso in rapide pennellate danno sfogo a un sentimento prorompente su tele di incredibile potenza narrativa. Quattro secoli più tardi Jean-Paul Sartre parlerà di Tintoretto come del “primo cineasta della storia”.
Jacopo reinventa le storie sacre in innumerevoli opere per le chiese veneziane, ma non disdegna soggetti profani e sensuali, come Marte e Venere sorpresi da Vulcano. E usa i ritratti per agganciare committenti facoltosi, facendosi aiutare dai figli Domenico e Marietta, quest’ultima artista di rinomato talento. I suoi sono ritratti sobri e tuttavia penetranti, lontani dalla teatralità delle composizioni religiose e mitologiche.
Nascono dal genio ma anche da un’ingegnosa organizzazione del lavoro che concorre alla leggendaria “prestezza” del maestro: per ridurre al massimo i tempi di posa, Tintoretto esegue rapidi studi dal vero da rielaborare per il dipinto finale e da riutilizzare in futuro. Nello studio il modello trova già la tela pronta, con il caratteristico fondo scuro, e la figura abbozzata. Per le rifiniture e i panneggi delle vesti, invece, si useranno manichini collocati in appositi “teatrini” di cartone, illuminati da candele posizionate in punti strategici.
Ma l’apice della fama per Tintoretto arriva con i cicli della Scuola Grande di San Rocco: un autentico poema figurato realizzato in tre riprese e composto da circa 50 immensi teleri che narrano le storie del Santo, la Passione di Cristo ed episodi tratti dalla Bibbia. Bruciante è l’invidia di Tiziano, che ha tentato di interporsi tra le mire del collega e i piani della confraternita responsabile del progetto. Seppur “tra scalpore e malcontenti”, il Tintor ottiene l’incarico desiderato fin dagli albori della sua carriera presentando al concorso, invece dei consueti disegni preparatori, un dipinto già bell’e fatto perché “quello era il suo modo di disegnare”.
Nemmeno la peste, che si porta via Tiziano con il figlio Orazio, riesce ad allontanarlo dalla Scuola Grande di San Rocco e dalla Serenissima, con cui l’artista intrattiene da sempre un rapporto ambivalente, ma fortissimo.
“Tintoretto è Venezia anche se non dipinge Venezia”, scriverà Sartre. E così in una laguna cupa e spettrale, tra i cadaveri che giacciono lungo i canali, il Tintor completerà quella che può essere definita un’opera totale, quando neppure Michelangelo con la Cappella Sistina poteva vantarsi di aver firmato ogni dipinto all’interno di un edificio.
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Direttorio (1790-1804):
In questo breve lasso temporale si assiste, nella mobilia, ad un accentuarsi del rigore archeologico e nel contempo si formula un accentuata severità lineare che di fatto prelude e anticipa forme e ornamentazioni che saranno poi tipiche dello stile Impero. L'arredo di epoca Direttorio abbandona le delicate cromie pastello che caratterizzano la produzione Luigi XVI in favore della cupa magnificenza del mogano, che nella sua vasta gamma di essenze risulterà il legno di gran lunga più apprezzato in questo periodo. A questo si aggiunga un generale abbandono delle tendenze a intarsio floreale a cui si preferiscono semplici filettature a legno tinto a ebano o in amaranto, gran moda conosce l'inserimento di lieve profilature lineari in ottone.
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Un’esistenza maledetta, un genio dell’arte e i suoi dipinti entrati nell’immaginario visivo mondiale con una potenza che ha pochi eguali. Gli ingredienti per bucare lo schermo ci sono tutti. Nessuna meraviglia, dunque, se il cinema si è impadronito della leggenda di Vincent Van Gogh.
Sono passati 70 anni da quando Alain Resnais ha raccontato per primo l’arte del maestro olandese in un coraggioso documentario in bianco e nero: una situazione davvero invidiabile se paragonata a quella di chi, oggi, si confronta dietro la macchina da presa con un grande della pittura che è anche un’icona mediatica. Ciò nonostante, Resnais non rinunciò a cercare una prospettiva originale per il proprio Van Gogh (1948). Vagando tra il villaggio olandese di Neuen, Parigi, la Provenza e l’Île-de-France, riprese noti capolavori come se fossero porzioni di realtà, trasformando per la prima volta lo spazio pittorico in spazio cinematografico.
Dopo il suo esperimento pionieristico, decine di documentari, biopic, serie televisive, lungometraggi di finzione girati in tutto il mondo hanno riportato sullo schermo uno degli artisti più amati di sempre. Difficile aggiungere qualcosa di nuovo.