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Un’esistenza maledetta, un genio dell’arte e i suoi dipinti entrati nell’immaginario visivo mondiale con una potenza che ha pochi eguali. Gli ingredienti per bucare lo schermo ci sono tutti. Nessuna meraviglia, dunque, se il cinema si è impadronito della leggenda di Vincent Van Gogh.

Sono passati 70 anni da quando Alain Resnais ha raccontato per primo l’arte del maestro olandese in un coraggioso documentario in bianco e nero: una situazione davvero invidiabile se paragonata a quella di chi, oggi, si confronta dietro la macchina da presa con un grande della pittura che è anche un’icona mediatica. Ciò nonostante, Resnais non rinunciò a cercare una prospettiva originale per il proprio Van Gogh (1948). Vagando tra il villaggio olandese di Neuen, Parigi, la Provenza e l’Île-de-France, riprese noti capolavori come se fossero porzioni di realtà, trasformando per la prima volta lo spazio pittorico in spazio cinematografico.
Dopo il suo esperimento pionieristico, decine di documentari, biopic, serie televisive, lungometraggi di finzione girati in tutto il mondo hanno riportato sullo schermo uno degli artisti più amati di sempre. Difficile aggiungere qualcosa di nuovo.



Ma l’artista e regista statunitense Julian Schnabel sembra avere le carte in regola per osare e il suo Van Gogh. Sulla soglia dell’eternità, in uscita nelle sale italiane il 3 gennaio con la distribuzione di Lucky Red, ha creato intorno a sé un clima di trepidante attesa.
A favore del film giocano di certo la sceneggiatura di un mito del cinema come Jean-Claude Carrière (Oscar alla carriera nel 2014, una ventennale collaborazione con Luis Buňuel, la firma degli screenplay di Danton, Il ritorno di Martin Guerre, L’insostenibile leggerezza dell’essere, Cyrano de Bergerac) e l’interpretazione del bravissimo Willem Dafoe nei panni del protagonista, che ha conquistato la Coppa Volpi per il miglior attore all’ultima Mostra Internazionale d’Arte Cinematografica di Venezia e si candida ai Golden Globe 2019. Senza contare un cast di talenti come Oscar Isaac nel ruolo di Paul Gauguin, Mads Mikkelsen, Emmanuelle Seigner, Mathieu Amalric.
Ma, come vedremo meglio più avanti, il vero motivo per andare a vedere Van Gogh. Sulla soglia dell’eternità è il taglio nuovo e accattivante, che supera i format classici del biopic e del documentario per raccontare un gigante dell’arte di sempre attraverso lo sguardo di un protagonista della pittura contemporanea.

Intanto ripercorriamo le orme di Van Gogh sul grande schermo, alla scoperta delle principali produzioni che hanno contribuito a fare di lui una star capace di andare oltre il tradizionale pubblico dell’arte.
Se ad aprire le danze in ambito documentaristico è stato Alain Resnais, a trasformare per la prima volta l’avventura del maestro olandese in una storia per il grande pubblico è stato Vincente Minnelli nel 1956: con Kirk Douglas nel ruolo di Van Gogh ed Anthony Quinn nei panni di Gauguin, Brama di vivere si aggiudicò un Oscar (a Quinn per il miglior attore non protagonista) e un Golden Globe (a Douglas per il miglior attore in un film drammatico), facendo incetta di nomination tra interpretazioni, regia, sceneggiatura e scenografie. Genio e follia, passione e ossessione tratteggiano qui il personaggio cinematografico di Van Gogh, in un binomio destinato a diventare un cliché di successo. Basato sull’omonimo romanzo di Irving Stone, il film mette in scena soprattutto l’uomo Van Gogh: la personalità tormentata, la pittura come preziosa forma di espressione, gli affetti e le amicizie, la difficile ricerca della serenità e il tragico epilogo.

Non passa decennio senza che un nuovo scorcio sulla figura del pittore si affacci dal grande o dal piccolo schermo. Se nel 1987 Vincent: la vita e la morte di Paul Cox introduce Van Gogh nel mondo dell’animazione, nel 1990 Robert Altman festeggia i 100 anni dalla morte dell’artista con la mini serie per la TV Vincent & Theo, che conosce un notevole successo anche in versione cinematografica. In primo piano qui è la lotta disperata di Van Gogh e del suo affezionato fratello per il riconoscimento di un talento rivoluzionario. Uno scenario che contrasta con i prezzi da capogiro raggiunti alla fine degli anni Ottanta da dipinti come i Girasoli.
Intanto Akira Kurosawa dedica al Campo di Grano con volo di corvi un intenso capitolo del film Sogni, che ripercorre la vita del regista giapponese in una serie di visioni oniriche: Van Gogh è l’unico artista occidentale a entrare nell’immaginario di Kurosawa che, guardando il quadro in un museo, si ritrova magicamente a camminare nel paesaggio dipinto, fino a incontrare l’artista che si è appena tagliato l’orecchio e fugge via, mentre un colpo di pistola riecheggia nell’aria e uno stormo di uccelli si alza in volo in preda al terrore.
Nel 2010 l’inserimento nella serie televisiva Doctor Who di una puntata che vede Van Gogh protagonista di un’avventura di fantascienza testimonia la posizione privilegiata assunto dal pittore nell’immaginazione degli spettatori di tutto il mondo.

I tempi sono maturi per un modo diverso di raccontare l’arte al cinema e in TV: fasce di pubblico lontane dalla fruizione museale tradizionale accolgono con entusiasmo una nuova generazione di prodotti audiovisivi. Van Gogh è tra i soggetti privilegiati di questa fase di sperimentazione, che abbandona il linguaggio specialistico e l’attitudine didattica per mescolare divulgazione e spettacolo.
Nel 2015 dal Regno Unito David Bickerstaff lancia Van Gogh. Un nuovo modo di vedere l’arte contemporaneamente in 1000 sale distribuite in tutto il mondo, catapultando gli spettatori tra le gallerie e il segreto dei depositi del Van Gogh Museum di Amsterdam. I commenti degli esperti, gli scritti dell’artista, le lettere del fratello Theo contestualizzano le immagini, in una “visita privilegiata” che permette di ammirare le opere “meglio che al museo”.
E se il documentario italiano Van Gogh – Tra il grano e il cielo di Giovanni Piscaglia racconta l’arte di Van Gogh da punti di vista inattesi – quello della sua prima grande collezionista, Helene Kröller-Müller, e del disegno, di solito trascurato a favore della pittura – il biopic d’animazione britannico-polacco Loving Vincent (2017, di Dorota Kobiela e Hugh Welchman) si afferma come un eccezionale evento artistico-cinematografico. Per la prima volta nella storia, un film viene interamente dipinto a mano su tela da ben 125 artisti che rielaborano i dipinti di Van Gogh riproducendone tecnica e stile. La manualità dell’arte incontra le ultime tecnologie con un risultato di forte impatto, i premi fioccano e anche le nomination a Oscar e Golden Globe.

Che cosa aggiunge Van Gogh. Sulla soglia dell’eternità a questo panorama già ampio e variegato? Lo sguardo soggettivo di un altro artista che si svincola dai limiti della biografia per presentare con libertà nuova il Van Gogh che non ha lasciato traccia nella storia ufficiale.
Tra i più interessanti pittori della scena attuale, attraverso il racconto degli ultimi giorni del maestro Schnabel fa luce dall’interno sul “momento magico, viscerale e violento” della creazione, sulla fatica e sulla dedizione assoluta di chi all’arte ha deciso di dedicare l’esistenza.
“Credo che il film sia in parte il ritratto dello stesso Schnabel”, racconta Laurence des Scars, direttrice del Musée d’Orsay di Parigi: “Ci sono momenti rivelatori in cui la macchina da presa diventa letteralmente Van Gogh, e così è Schnabel stesso a diventare Van Gogh. Credo che Julian abbia messo molto di sé in questo film, e dice cose sulla pittura alle quali lui tiene molto”.
Continua il produttore Jon Killik, che collabora con Schnabel fin dal suo primo film Basquiat: “C’è una battuta in cui Vincent dice di non inventare niente di quello che dipinge. Dice: ‘È tutto già presente in natura, io devo solo liberarlo’. Ed è esattamente quello che accade quando Julian dipinge o gira i suoi film. Non cerca di raccontare le storie di pittori, scrittori, poeti e musicisti, sono le loro storie che fluiscono grazie al suo originale punto di vista”. Perché ci vuole arte per raccontare l’arte.
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