EMPEREURS DE CHINE ET ROIS DE FRANCE
Parigi, Musée du Louvre
29 settembre 2011 – 9 gennaio 2012
Seduta sulla metrò di ritorno verso casa, dò un’occhiata agli appunti che ho preso durante la mia lunga visita al Louvre. Un’infilata di date, nomi, quasi tutti cinesi, titoli di opere d’arte e descrizioni di oggetti di artigianato, un’insieme aggrovigliato di dati sterili che dubito mi permetterà di produrre una recensione spumeggiante. Quando, sempre in metropolitana, qualche mese fa, avevo scorto la locandina che pubblicizzava la mostra “La Città Proibita al Louvre”, la mia mente di sognatrice mi aveva immediatamente catapultata tra antichi mobili di legno di rosa, baldacchini scuri,
servizi da tè decorati a dragoni color giada, il tutto bagnato da una luce soffusa e rossastra filtrata da delicate lanterne di carta di riso. Rewind. Niente di tutto questo. La mostra ripercorre la storia della Città proibita attraverso oggetti, capi di abbigliamento, ritratti e dipinti, e grazie ad essi racconta le figure carismatiche e dispotiche dei suoi imperatori, spesso responsabili dei grandi cambiamenti che hanno sconvolto la Cina nel corso dei Secoli. Al mio arrivo nell’Ala Sully impiego qualche minuto a comprendere la dinamica dell’allestimento, che dovrebbe aiutare il visitatore a districarsi tra cronaca orientale e cronaca occidentale, messe a confronto grazie a pannelli di colori differenti, e accompagnate da oggetti e opere d’arte appartenenti ad entrambi i mondi. Le date non sono mai state il mio forte, e così mi lascio affascinare dagli stupendi oggetti cinesi in lacca rossa brillante, decorati e cesellati a motivi floreali, dai ritratti di imperatori cinesi medievali, con i loro volti seri, ombreggiati da finissima peluria nera, e contornati dai blocchi di colore quasi piatto dei loro abiti e dello sfondo. Un piccolo rotolo rappresentante “La tartaruga divina” che soffia fuori dal suo becco vapori di immortalità, ferma sulla riva di un lago, mi fa sognare, con il suo uso poetico della metafora. Continuo a seguire il percorso espositivo, o per lo meno, è quello che credo, ma molto presto mi accorgo di aver saltato a pié pari un’intera sezione della mostra, ad un certo punto tra le bacheche dedicate all’artigianato della dinastia Ming e un pannello in legno in guisa di trofeo di guerra, risalente alla dinastia capetingia al potere in Francia nel 1500. Dopo aver individuato e colmato il vuoto temporale, grazie ad un flashback di qualche secolo, il che aggiunge confusione al mio già incombente disordine mentale, proseguo verso quella che eleggerò in seguito la mia sala preferita. Sulla parete più ampia un enorme ritratto dell’imperatore Kangxi, il cui volto benevolo è dipinto con una precisione quasi fotografica, assiso su di un trono ricoperto di pietre preziose incastonate nel legno, e avvolto in uno sfarzoso abito multicolore, finemente ricamato. Alla sua sinistra un secondo ritratto, questa volta in abiti ordinari, mi colpisce per l’uso della prospettiva nello sfondo, solitamente assente, che testimonia l’apertura dell’imperatore all’Occidente e alle sue tecniche artistiche. Più avanti scovo le opere più curiose, dimostrazione dei contatti sempre più frequenti e intensi tra la Francia e la Cina: i ritratti dell’Imperatore Yongzheng vestito come Luigi XIV, con tanto di parrucca boccoluta, gilet abbottonato e foulard. Sono questi esempi di comunicazione tra i due mondi che mi aspettavo di ritrovare al fulcro della mostra, così come la gigantesca rappresentazione di un falco bianco regalmente appollaiato su di una roccia tagliente, dipinta dall’italiano Giuseppe Castiglione con un’impensabile fusione di stili, a prima vista soggetto tipicamente cinese, ma delineato da pennellate e dettagli naturalistici più vicini alla scuola artistica occidentale. Purtroppo però lo spazio dedicato alla mostra è troppo vasto, incuneato in parte nelle sale dedicate alla storia del Louvre, e la dispersione degli oggetti esposti in diverse ali del palazzo non facilita la scorrevolezza della visita. La stanchezza ha ben presto la meglio sulla curiosità e sulla fascinazione che queste opere hanno il potere di provocare.