destinati a lasciare un segno indelebile nella storia dell’arte di sempre, e di committenti illuminati vogliosi di rivaleggiare coi fasti di Roma e dei Medici. Questa stagione ha due protagonisti su tutti, ovvero Tiziano Vecellio e Jacopo Robusti, detto il Tintoretto. A quest’ultimo è dedicata la mostra attualmente in corso alle Scuderie del Quirinale di Roma, curata da Vittorio Sgarbi, è che rappresenta una delle rarissime occasioni di esposizioni monografiche dedicate all’artista. Pensare che l’ultima risale al 1937, ma d’altronde gran parte della produzione del pittore è realizzata su giganteschi teleri, che andarono ad allestire per esempio la scuola di San Rocco e che rappresentano uno dei cicli pittorici più straordinari dell’arte di ogni tempo.
Il Tintoretto era una personalità particolare, profondamente segnata da uno spirito irrequieto; le sue tensioni psicologiche, la sua malinconia fu trasmessa anche nella sua produzione, specie nella ricca produzione ritrattistica, nella mostra ben rappresentata da una serie di opere dedicate a personaggi anonimi, o al dittico dedicato ai fratelli Alvise e Giovanni Paolo Cornaro. Anche dai suoi modelli emerge la profondità psicologica e lo sconforto dinanzi al nulla, ma diventa evidente soprattutto negli autoritratti, in quello giovanile di Londra ma soprattutto in quello disarmante del Louvre, l’anziano Jacopo con lo sguardo sconfortato. Robusti non era un devoto, ma rispondeva con spirito mercantile alle committenze richieste: non aveva grandi possedimenti in proprio, e l’opera ritrattistica garantiva un buon introito con poco sforzo da parte sua. Jean-Paul Sartre, in uno splendido libro dedicato all’artista, confronta Tintoretto a Tiziano, i due avversari di una vita, le due antitetiche concezioni dell’arte e della vita. Tiziano godette dei privilegi delle alte corti, mentre Tintoretto fu continuamente rincorso dalle esigenze materiali, dalle incomprensioni e dai conflitti con le autorità della Serenissima. Per questo, la sua produzione può dirsi caratterizzata da una “religiosità laica”: i santi e gli angeli di Tintoretto hanno una realtà concreta, fisica, corporea. Per quanto adornati da aureole o da luci metafisiche, denunciano sempre una loro “stanchezza”, una loro voluminosità, una loro concretezza. Sartre insiste molto su questo elemento: i corpi dei personaggi si scontrano tra loro, si gettano a terra, esprimono una loro immanenza sensibile che nella tradizione precedente veniva occultata per un’esaltazione teologica astratta. Guardate il San Marco del San Marco libera lo schiavo dal supplizio della tortura, il pezzo forte della mostra, uno dei capolavori del Tintoretto delle Gallerie dell’Accademia: l’angelo è ripreso da uno scorcio assolutamente anomalo, è difficilmente riconoscibile, sembra un aereo in picchiata e infatti Sartre sosteneva come sembrasse destinato a schiantarsi sul pubblico sottostante. Così è anche per la Trafugazione di San Marco, dove in una scena costruita secondo una prospettiva teatrale, i personaggi in primo piano sembrano aver abdicato a ogni elemento di santità e divinità. Il volume dei corpi si nota anche negli scorci di Apollo e Dafne, ma anche nelle due ultime cene esposte, due altri capolavori caratterizzati da una anomala disposizione della tavola presieduta dal Cristo, dalle tinte oscure che annunciano il Caravaggio e che si contrappongono allo stile conviviale e gioioso del Veronese. Tanto ancora si potrebbe dire, a proposito di altri gioielli offerti al pubblico quali il San Giorgio uccide il drago, La creazione gli animali e L’incoronazione della vergine, tema quest’ultimo rappresentato numerose volte da Tintoretto, un “circo” o un “vortice” di santità e trascendenza che però piuttosto che mostrarsi come atto di devozione è pur sempre un’ulteriore forma di espressione della volontà dell’artista, ricercatore insaziabile della grandezza. Una mostra impedibile, candidata a una delle migliori mostre di questo 2012.